Educatori cercasi: problemi e criticità attuali
09.10.2022

Intervista a Fabio Olivieri per il periodico della Fondazione Archè (prossima pubblicazione cura di Alessandro Pirovano)
Intervistatore: “Educatori cercasi”, “crisi del mercato del lavoro educativo”, “non ci sono educatori”: sono alcuni dei titoli apparsi in questi mesi. Cos’è successo? Come si spiega la diffusa difficoltà a trovare nuovi e nuove educatrici?
Non è del tutto vero che non ci siano educatori, in Italia ce ne sono ed anche in numero adeguato a coprire ogni singola necessità dei servizi territoriali. Il problema semmai è che lo sviluppo di una neonata coscienza professionale di ruolo, da parte di molti colleghi e colleghe, ha cominciato a riflettersi anche sulle premesse del nostro lavoro. Ci si è resi conto finalmente della complessità del lavoro educativo e pedagogico e del suo valore economico quale corrispettivo dell’impegno profuso da parte dei professionisti che sono chiamati ad attuarlo nei differenti contesti. Questo ha impresso una forte accelerazione al moto di consapevolezza che portato molti educatori a rifiutare condizioni di lavoro improponibili. L’educatore socio-pedagogico non è un volontario né si avvicina lontanamente a questo ruolo perché la sua professionalità è meritevole al pari altre professioni tecniche del sociale. In secondo luogo, è un cittadino e in molti casi un genitore e pertanto deve poter provvedere ai bisogni del suo nucleo familiare, mentre qui il rischio è che si assottigli sempre di più la linea di demarcazione tra chi si prende cura del disagio e chi la riceve. Detto altrimenti, con stipendi da fame sorge il sospetto che il passo da Educatore ad utente sia sempre più vicino!
Ecco perché alcuni di loro decidono di prestare servizio in altri contesti, diversi da quelli strettamente sociali, non esistono ad oggi le premesse e le condizioni di base per poter operare professionalmente nell’educativo. Inoltre, mancano completamente, opportunità di progressione verticali di carriera. Un educatore rischia di entrare in un luogo di lavoro e di uscirne senza aver maturato ulteriori esperienze di coordinamento e gestione dei servizi. Un esempio pratico è quello delle unità socio-educative dei servizi sociali municipali dove è rarissimo vedervi a capo un pedagogista o un educatore, che pure sono gli unici qualificati ad accogliere istanza di natura educativa, formativa e pedagogica. Eppure, nei bandi pubblici si fa sovente riferimento ad altre categorie professionali che non presentano competenze e conoscenze pregresse, adeguate per rispondere in modo puntuale alle necessità di questo dominio specifico.
I: Oltre a quella salariale, ci sono altre motivazioni dietro alla cosiddetta “crisi” del lavoro educativo. Qual è la sua opinione?
Stabilire un livello gerarchico significherebbe applicare un pensiero lineare e sequenziale che non si confà assolutamente a quello che è l’attuale panorama che insiste nel lavoro educativo. Parliamo di umano e di sociale e in questi termini necessitiamo di identificare cause che agiscono a livello macro-sistemico e micro-sistemico. Al secondo ho appena accennato. Mentre con riguardo al primo, ritengo che il nostro Paese manchi di una legge organica sull’educativo che prenda quota a partire dai principi e dai valori fondamentali della nostra Carta Costituzionale. L’Europa ci ha consegnato documenti altamente significativi nel cercare di tracciare la rotta delle politiche sociali e pedagogiche, ma sono sempre rimasti tali e non si fatto altro che ammassare nel corso degli anni raccomandazioni, pareri e agende che poi puntualmente sfumano e finiscono per essere sostituite da altre dello stesso tipo. Una sorta di girone dantesco dove sembra manchi la reale ed autentica volontà di darvi piena attuazione in Italia. Non è, non è forse un caso anche qui che negli ultimi giorni del dopo elezioni i principali quotidiani nazionali, dal Corriere della Sera, Repubblica, Il Fatto Quotidiano, continuino a pubblicare articoli sui cd “ministeri chiave” e tra non sia menzionato quello dell’Istruzione e della Ricerca. Stessa sorte spetta a quello del Welfare, dove l’unico nodo al pettine che conta, è quello dell’efficientamento della spesa pubblica, sistematicamente tradotto con la capacità di operare tagli alle politiche di bilancio. Abbiamo ridotto il Fondo nazionale per il sociale di oltre il 70% nel corso degli ultimi venti anni a fronte di povertà educative e socio-economiche in costante aumento!
Quando il sociale non funziona in modo adeguato le persone e il carico pro-capite ripartito non scompare magicamente ma viene dirottato ad un livello di intervento emergenziale più immediato: quello sanitario. Negli USA, dove vige un sistema di Welfare che certamente non approvo né condivido, le assicurazioni private da decenni investono in promozione della salute e del benessere. Ed è in questi ambiti che il lavoro pedagogico ha la sua cifra specifica. Ma senza spingerci oltreoceano è sufficiente guardare agli investimenti sociali di Paesi europei come la Germania, la Svezia, la Danimarca.
Un nucleo familiare, un anziano, un minore che non possano beneficiare di interventi educativi sono condannati dallo Stato a scivolare sempre più nella dimensione patologica, con tutta la fatica che ciò comporta poi nel saperla gestire sapientemente con un’offerta territoriale di servizi ampiamente ridotta e congestionata.
Vi è poi un ulteriore livello aggiuntivo, quello del mesa-sistema, ossia del modo in cui i diversi soggetti operano attivamente a cavallo tra macro e micro-realtà. Si parla molto di cittadinanza attiva, di patti educativi di comunità, di comunità educante ma la realtà è che nessuno ha mai realmente investito nelle competenze necessarie che occorre sviluppare per dare corpo e sostanza a queste parole che altrimenti risuonano a vuoto e che servono solo ai governanti per gettare sabbia negli occhi dei cittadini. L’educazione richiede tempo e sedimentazione, riflessione ed apertura mentale, non è una pillola da ingoiare né un progetto a breve termine da finanziare per dare lustro al promotore di turno. L’educazione dovrebbe potersi respirare nell’aria quotidianamente, come l’ossigeno, affinché ciascuno possa ricorrervi secondo la propria misura. Dovrebbe risultare così familiare da costituire un bisogno implicito, uno di quelli di cui rilevi la mancanza immediata nel momento in cui lo avverti insoddisfatto.
Questa incapacità da parte del Pubblico di incidere significativamente sul processo educativo produce a cascata effetti devastanti anche sul personale in servizio. Sono molti i colleghi e le colleghe che devono fare i conti coi loro sensi di colpa, per non essere riusciti a salvare il minore, l’adulto o la famiglia che gli è stata affidata. Sono ferite che se non opportunamente rielaborate con l’ausilio di pedagogisti ed educatori esperti di supervisione, recano danni considerevoli sulla persona e sul professionista.
I: Ha riscontrato anche una più o meno diffusa crisi di valori, un’attenuazione dell’afflato ideale a svolgere il lavoro sociale?
Finché non riconosceremo come una professione tecnica quella dell’educatore, saremo sempre a cavallo tra volontariato e lavoro ordinariamente inteso. Qui non entrano in gioco gli aspetti vocazionali, siamo professionisti e a nessuno verrebbe in mente di chiedere una dedizione sacrificale ad altri professionisti come l’assistente sociale o lo psicologo! Il nostro è un lavoro che richiede competenze specifiche per le quali studiamo e conseguiamo un titolo di studio di livello universitario. Possiamo parlare di atteggiamento mentale, di disponibilità a, ma non certo di vocazione. In quest’ottica, come ho già riferito, è necessario riconoscere l’organicità del lavoro pedagogico che comprende competenze progettuali, di monitoraggio, valutazione e verifica costante degli esiti programmati con l’utente. Dinamiche che a loro volte hanno necessità di esprimersi in un quadro di interdisciplinarità che segna e contrassegna la struttura e il corso degli studi delle classi di laurea pedagogiche. Noi infatti siamo gli unici ad avere ancora la possibilità di ampliare, a livello accademico, le nostre conoscenze negli ambiti più disparati: dalla pedagogia alla sociologia, dall’antropologia alla storia, dalla didattica alla docimologia, psicologia, igiene, psichiatria, etc. Dico gli unici perché in un’epoca di iperspecializzazione ossessiva, noi ci facciamo garanti del fatto che un umano non può essere ridotto a una sola disciplina, ma deve essere rappresentato da tutte le sfumature che lo compongono, lo motivano e lo legittimano.
I: Una risposta per contare di più e per poter meglio affrontare le sfide della contemporaneità da parte delle realtà del mondo sociale sono le organizzazioni di secondo livello. In che senso? Ci può spiegare la loro importanza?
Una delle motivazioni per cui noi veniamo poco considerati è il fatto che non rappresentiamo una fascia compatta che può essere di interesse per la politica. Per questo è importante avere un assetto comunicativo efficace, duraturo e permanente. Sarebbe importante costituire un polo comunicativo tra università, enti locali e associazionismo che possa diffondere ciò che viene fatto nell’ambito del lavoro socio-educativo con una maggiore efficacia e incisività. Ciò avrebbe conseguenze anche sulla vita del singolo professionista: mancano pubblicazioni firmate da educatori o da pedagogisti da case editrici Mainstream. Ciò fa sì che nell’immaginario collettivo della pratica del quotidiano se ne occupino solo certe categorie professionali, come psicologi e assistenti sociali. E ciò si riflette anche sulla legittimità che si riconosce al ruolo di pedagogisti ed educatori visto che non si è in grado di definire con esattezza ciò che facciamo e quello di cui ci occupiamo. E si rischia quindi di non farne comprendere pienamente il valore.